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Lo scandaloso “protocollo di fine vita” di Alfie - Matchman News
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Lo scandaloso “protocollo di fine vita” di Alfie

Lo chiamano “end of life protocol”, protocollo di fine vita, ed è una delle tante espressioni edulcorate con le quali viene nascosta l’evidenza. E cioè che quello applicato su Alfie Evans è un protocollo di morte. Un protocollo di morte che ieri il giudice Hayden ha deciso che debba continuare, nonostante il piccolo abbia provato […]

Lo chiamano “end of life protocol”, protocollo di fine vita, ed è una delle tante espressioni edulcorate con le quali viene nascosta l’evidenza. E cioè che quello applicato su Alfie Evans è un protocollo di morte. Un protocollo di morte che ieri il giudice Hayden ha deciso che debba continuare, nonostante il piccolo abbia provato […]

Lo chiamano “end of life protocol”, protocollo di fine vita, ed è una delle tante espressioni edulcorate con le quali viene nascosta l’evidenza. E cioè che quello applicato su Alfie Evans è un protocollo di morte. Un protocollo di morte che ieri il giudice Hayden ha deciso che debba continuare, nonostante il piccolo abbia provato di non essere il malato terminale che si pensava. E che in queste ore disperate si prova a scongiurare.

Perché Alfie, 23 mesi, ha una malattia che non è stata diagnostica, un po’ perché rarissima, un po’ perché ormai non si vanno a diagnosticare le malattie così rare, togliendo denaro e risorse alle cure di chi può essere curato. Da 15 mesi è in ospedale, e c’è chi fa notare che è stato un dispendio di denaro, che invece di ventilarlo e tenerlo in vita sarebbe stato il caso di lasciarlo morire, di evitare questo inutile accanimento terapeutico.

Ma è davvero questo il punto? Mentre i giudici inglesi respingono ogni appello della famiglia, mentre cominciano a circolare evidenze del fatto che la situazione di Alfie sia dovuta ad un errore che si deve in qualche modo coprire (qui il video esclusivo della Bussola Quotidiana), Alfie, staccato dalle macchine che lo hanno aiutato a respirare, è in vita, e respira autonomamente in un modo che ha dell’incredibile perché i polmoni non hanno lavorato in tutti questi mesi.

Non lo hanno idratato per una notte, non gli hanno dato ossigeno, e solo la mattina successiva alla prevista “esecuzione” del 23 aprile hanno cominciato ad accettare di dare ossigeno e idratarlo, ma non di nutrirlo, cosa che è cominciata questa notte. Il protocollo di fine vita, infatti, non prevede una nuova intubazione, ma non si può lasciar morire nessuno di fame e di sete.

Eppure tutta questa storia va al di là di un qualunque ragionamento di compassione, sebbene ci si debba sempre ricordare che si parla di un bambino. Come un bambino era Charlie Gard, come un bambino era il piccolo Isaiah.

Ma il vero nodo della questione è: fino a che punto lo Stato ha il diritto di decidere della vita delle persone?

Si dice che quello di Alfie è accanimento terapeutico, viene rifiutata ogni sua possibilità di trasferimento in posti dove queste cure, che siano accanimento o no, le vogliono dare, addirittura si sta pensando in queste ore di privarlo di nuovo dell’ossigeno. Ma se i genitori decidono di voler curare il figlio fino all’ultimo respiro, anche di accanirsi pur di tenerlo in vita, di amarlo fino all’estremo tentativo, perché questo non è consentito?

È il paradosso di un mondo che doveva essere libero e costruito per il bene comune, e che invece riduce la comunità ad una massa di cui si può disporre a piacimento. Ma è anche il paradosso di una società che non è più fatta per la vita, ma per la morte.

Tanto che, quando ci fu il caso di Eluana Englaro, l’opinione pubblica fu mossa nella direzione opposta: perché tenerla in vita, se lo stesso padre di lei chiede di lasciarla andare? Perché lo Stato dovrebbe legiferare per non permettere che una persona venga lasciata morire?

Ora, invece, si accetta che lo Stato decida per i genitori che quel bambino deve morire. E fa niente se il fatto che Charlie sia rimasto in vita più dei 10 minuti previsti smentisca tutte le previsioni dei medici. I genitori devono lasciare andare il figlio, per il suo migliore interesse.

Ma come si definisce questo migliore interesse? Tutto comincia, in fondo, quando si accetta che lo Stato dia in affido i figli per salvarli da famiglie disastrate o situazioni difficili. Si tratta di un estremo, che prevede un percorso di rieducazione e di reinserimento nella famiglia originaria, con la collaborazione della famiglia affidataria.

Succede perché lo Stato ha il dovere di salvare le vite. Un dovere non solo etico. Cittadini che vivono in condizioni migliori sono migliori cittadini. Cittadini che vivono in famiglie amorevoli sono in grado di creare una società più armoniosa.

Ma poi, da questo dovere di salvare le vite, tutto è in qualche modo trasceso. Viviamo in società in cui lo Stato decide la nostra educazione e non ne accetta di differenti – vedi il lavoro pro-gender nelle scuole, o i corsi di educazione civica in Belgio dove gli insegnanti devono essere “religiosamente neutrali”. Viviamo in società in cui lo Stato decide come dobbiamo pensare, e non manca di condannarci per “hate speech” ogni volta che il nostro discorso si sposta rispettosamente da quello che è stato già deciso a tavolino. Si può così pensare che il testamento biologico sia una cosa necessaria, ma non si può pensare che ogni genitore abbia il diritto non solo di curare il proprio figlio al massimo delle possibilità, anche andando oltre i protocolli, ma nemmeno di educarlo secondo il modo che ritiene più consono.

Se Benedetto XVI parlava di dittatura del relativismo, oggi siamo in una fase diversa, nuova, una vera e propria dittatura del pensiero che ricorda “1984” di Orwell.

La neo lingua è data da parole come “protocollo per il fine vita”, o “interruzione volontaria di gravidanza” o “educazione sessuale e riproduttiva” che, in fondo, nascondono la deriva totalitaria in cui siamo precipitati.

Una deriva che fa in modo che tutti non abbiano connessione con la realtà. La realtà è che Alfie Evans è rimasto vivo, nonostante tutto. Ha resistito ai tentativi di farlo morire soffocato, di sete o di fame, ed è lì, sorretto dalle preghiere e dall’amore di tante persone che semplicemente non accettano che una vita umana possa essere lasciata andare così, a differenza di quello che ci insegna un certo main stream.

Per questo, Alfie Evans non è solo un caso di compassione, e non è per compassione che andrebbe concesso ai genitori di curare Alfie nel modo in cui vogliono, fino alla fine, decidendo loro quando è accanimento terapeutico. Alfie Evans è un caso di privazione della libertà. È il caso estremo in cui altri si sostituiscono alla famiglia, e in cui l’essere umano non viene più considerato parte di una comunità, ma un individuo da manipolare e scartare a proprio piacimento. Alfie Evans è tutto questo. Molto di più di quello che si può pensare, in fondo.

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