Violenza religiosa, prima tra i crimini d’odio. Ma per i governi non è una priorità
Il 29 settembre scorso è stato presentato all’OSCE l’annuale rapporto sui crimini d’odio per l’anno 2014.
di Luca Chiodini - 03/10/2015Il 29 settembre scorso è stato presentato all’OSCE l’annuale rapporto sui crimini d’odio per l’anno 2014. Per capire meglio di cosa si tratta, Matchman News ha intervistato Mattia Ferrero, avvocato e dottore di ricerca, da parecchi anni partecipa, quale rappresentante della Civil Society, ai lavori dell’OSCE (Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa) relativi alla libertà religiosa nonché alla promozione della tolleranza e della non discriminazione. Per l’OSCE è trainer del programma PAHCT, di formazione dei pubblici ministeri sugli hate crimes.
Avvocato, in questi giorni viene pubblicato da parte dell’Ufficio per le Istituzioni Democratiche e i Diritti Umani dell’OSCE (ODIHR) l’annuale report sui c.d. hate crimes. Può descriverci brevemente di cosa si tratta? Perché l’OSCE-ODIHR si interessa a questi temi?
Gli hate crimes o crimini d’odio (per impiegare il termine italiano) sono quei reati che vengono commessi scegliendo le vittime in ragione della loro razza, religione, etnia, nazionalità, etc. Si tratta di reati che, per le loro caratteristiche, possono portare ad un’escalation di violenza e conflittualità, non solo all’interno di un singolo Stato, ma pure tra Stati. L’OSCE – che come dice il nome stesso è un’organizzazione di sicurezza (seppur intesa ampiamente) – si preoccupa di questi fenomeni che possono minare la stabilità dell’area OSCE e le relazioni pacifiche tra gli Stati.
Da quando sono iniziate queste attività di ricerche e osservazione? Può spiegarci quale è stato il processo che ha portato a questo tipo di studi?
È ormai da dieci anni che l’OSCE ha avviato un’attività di raccolta dei dati sugli hate crimes e gli incidenti d’odio, sviluppando un sistema di data collection, comprensivo di un sito Web ad hoc (www.hatecrime.osce.org), ritenuto un unicum a livello internazionale. Oltre a ciò, è stato sviluppato un lavoro di formazione delle forze di polizia, della magistratura e dei gruppi che sono o possono essere vittime degli hate crimes. Si tratta di un processo lungo, avviato all’indomani dell’11 Settembre, che si è articolato in diverse decisioni delle Ministeriali dell’OSCE che, man mano, hanno attribuito all’ODIHR il mandato di sviluppare i vari programmi.
Nelle sue attività, l’ODIHR offre un ampio margine di coinvolgimento alle organizzazioni non governative, cosa che è prevista anche per la raccolta dei dati del presente report. È sempre stato così? In generale, quali benefici emergono da questa collaborazione?
L’OSCE ha come peculiarità quella di attribuire grande rilievo alla Civil Society (termine con cui nell’OSCE ci si riferisce alle ONG, all’Università ed agli altri attori privati), tanto che nelle riunioni i rappresentanti della Civil Society hanno lo stesso diritto di parola delle delegazioni governative. Con specifico riguardo all’attività degli hate crimes, il coinvolgimento della Civil Society è essenziale sia nella raccolta dei dati, sia nella realizzazione delle attività, dato che si cerca sempre di coinvolgere i rappresentanti della Civil Society in ogni attività coi governi nazionali.
Quali sono gli aspetti più interessanti di questi studi?
Il numero degli hate crimes registrati nei diversi Stati partecipanti dell’OSCE varia moltissimo, ma ciò dipende essenzialmente dalla capacità dei singoli Stati di raccogliere efficacemente i dati. La verità è che in tutti gli Stati si verificano crimini d’odio e tale fenomeno viene spesso sottovalutato, a volte anche dalle stesse vittime. Un altro dato di notevole interesse è che gli hate crimes vengono commessi tanto contro gruppi minoritari, quanto gruppi maggioritari. Nell’Europa occidentale le comunità cristiane sono spesso vittime di crimini d’odio, in particolare di atti contro le chiese ed i cimiteri. Più in generale, si può riscontrare che la violenza antireligiosa è, in molti Paesi, la più ricorrente, eppure non sembra rappresentare una priorità nelle politiche antidiscriminatorie degli Stati.
Luca Chiodini