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Aborto, le bugie che in pochi conoscono - Matchman News
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Aborto, le bugie che in pochi conoscono

Aborto: un dibattito sempre aperto.

Aborto: un dibattito sempre aperto.

Aborto, un dibattito aperto. Su Matchman News abbiamo dato conto di quanto accade in Europa, con il dibattito sui bambini nati vivi dopo un aborto tardivo. Abbiamo dato conto di quanto si discute in Sudamerica, dove le lobby Lgbt fanno pressioni sugli Stati per garantire il diritto all’aborto. Abbiamo raccontato quello che accade in India – dove l’aborto è considerato un rimedio alla mancata sterilizzazione – e le pressioni in Africa.  E abbiamo dato conto di quanto accade negli Stati Uniti, dove si prova persino ad allungare il termine della possibilità di abortire, e ogni spinta anti-abortiva viene bollata come un tentativo di “discriminare le donne” e non garantire loro il diritto alla salute sessuale e riproduttiva. Ma proprio la storia degli Stati Uniti, dove l’aborto fu introdotto nella legislazione da due storiche sentenze nel 1973, dovrebbe far comprendere come, in fondo, tutta la politica dell’aborto si regge su una bugia. Anzi su due. Quelle che portarono alle due storiche sentenze USA del 1973.

Jane Doe e Mary Roe sono gli pseudonimi usati per le donne che lanciarono il processo che aprì la strada all’aborto negli USA. Negli Stati Uniti vige la “common law,” una sentenza fa giurisprudenza. I casi si chiamavano “Roe vs Wade” e “Doe vs Bolton.” Ma la verità è che nessuna delle due donne ha poi effettivamente abortito. Anzi, entrambe hanno lottato per il sovvertimento della sentenza che le riguarda, senza successo. Ed entrambe hanno storie simili.

Jane Doe si chiama Sandra Cano, Mary Roe è Norma McCorvey. All’epoca dei fatti, erano entrambe infatti giovani, senza educazione, povere: esattamente quello che serviva perché fossero sfruttate per un caso a livello nazionale. E infatti entrambe sostengono che i loro casi sono stati basati su bugie: nel caso di Norma, sulla bugia che fosse stata stuprata, e nel caso di Sandra, che aveva sempre voluto l’aborto come prima scelta.

L’iter processuale di Sandra Cano cominciò nel 1970: aveva 22 anni, e aspettava il suo quarto figlio, dopo aver perso la custodia di due dei suoi bambini e aver adottato il terzo. Viveva in Georgia, e lì l’aborto poteva essere praticato solo in condizioni estreme, ma gli avvocati ritennero che a Sandra Cano dovesse essere concesso il diritto di abortire. La Corte Suprema fu d’accordo, e con quella sentenza estese il diritto di abortire a tutti i nove mesi di gravidanza.

Peccato che da sempre Sandra Cano ha messo sotto accusa il fondamento stesso dell’iter processuale. Perché – ha detto – lei non aveva mai davvero voluto né richiesto un aborto e che era stata portata con l’imbroglio a firmare un affidavit sull’aborto al processo che aveva intentato solamente per definire il divorzio da suo marito e cercare di ottenere nuovamente la custodia degli altri bambini. E nel 2003, a 30 anni della sentenza, ha lanciato un procedimento legale per sovvertire la famosa sentenza che la riguarda. Non ha avuto successo.

Ma ha provato a sovvertire la sentenza anche Norma McCorvey. La quale, dopo la sentenza che la riguarda, è stata per anni una abortista attivista. Nel 1990, però, si è convertita alla causa pro-life, e ha sottolineato di essere “stata persuasa da avvocati femministi a mentire, a dire che ero stata stuprata, e che avevo bisogno di un aborto. Ma era tutta una bugia. E da allora oltre 50 milioni di bambini sono stati uccisi. Mi porterò questo peso nella tomba. Anche la petizione di McCorvey è stata respinta.

Perché il sistema sembra respingere scientemente ogni ripensamento sul campo dell’aborto. Eppure, basterebbe guardare in faccia alla realtà. All’immensa sofferenza che provoca un aborto in ogni donna. Al fatto che le stesse donne che hanno dato vita alle sentenze che hanno fatto entrare l’aborto nel sistema legislativo USA ora contestano quelle sentenze. Al fatto che ormai, in nome di non si sa che cosa, si è così timorosi di fare un serio ripensamento sul tema che alcune decisioni dei giudici sul tema dell’aborto sembrano semplicemente assurde. E sul fatto che in fondo la parola aborto fa male. Tanto che la chiami, in maniera neutra, “interruzione volontaria di gravidanza.” O la nascondi dietro la formula di “diritti sessuali riproduttivi.” Termini neutri, che funzionano come anestetici del pensiero. Aborto, il dibattito aperto. Ma nessun passo indietro è concesso.

Andrea Gagliarducci

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